Oceano indiano

Raccontiamo la terza e ultima parte del nostro secondo viaggia Africano… in terra sudafricana e mozambicana. Con i bimbi? Molto molto difficile, qui siamo nell’Africa vera, dove i turisti sono pochi, come le strutture ricettive… magari se ne riparla dopo i 12-15 anni.


 

23 Ottobre .

La sveglia suona molto presto: alle 7.00 siamo già in strada a bordo del pick-up del Cuamm. Damiano ci porta a fare colazione in un “bar da bianchi” che vende caffè e delle specie di brioches a sua detta molto buone. Sfortunatamente non ha nulla di buono da mangiare per cui ci rechiamo in città in un vero e proprio caffè-pasticceria dove facciamo finalmente colazione. Compriamo una bottiglia di acqua per il viaggio e iniziamo ad uscire da Beira, lasciando le strade che ormai erano diventate familiari. La periferia di Beira è immediatamente un mondo diverso: la settimana prima qui c’è stata l’ennesima epidemia di colera e non c’è da stupirsi visto le condizioni sanitarie del luogo.  Quelle che credevamo fossero “bancarelle” altro non sono che case di lamiera e mattoni adibite a negozio durante il giorno. Le strade sono polverose, la gente è dappertutto e ogni tanto ci assale la paura che qualcuno possa buttarsi sotto la nostra macchina per fermarci. Sono paure infondate: la gente è noncurante del nostro passaggio, e la loro attenzione è al massimo rivolta alle ciapa che di tanto in tanto superiamo.

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Ad un tratto Damiano si ferma per raccogliere Jolindo, che si mette al posto di guida: non abbiamo idea di come abbia fatto a trovare il punto d’incontro stabilito, non ci sono riferimenti e le baracche sono tutte simili. Jolindo è un uomo estremamente cordiale: ha i capelli brizzolati e nella nostra testa è un uomo di mezza età. Poi ci dice che il suo figlio più grande ha diciassette anni e che spera di diventare presto nonno. Capiamo che non deve avere più di quarant’anni ma che tra noi e lui passano già due generazioni. E’ incredibile come viviamo lo stesso tempo in modo diverso.

Chiediamo a Jolindo quanto tempo impiegheremo ad arrivare a Vilankulo. “Parecchio” “Si, ma quanti chilometri sono?”. “Molti”. Le distanze, i tempi, le misure in Africa sono qualcosa di poco conto. Solo una volta tornati a casa abbiamo controllato su Google Maps la distanza: 532 km.

Attraversiamo campagne verdi. La statale e la ferrovia si rincorrono in due linee parallele, un po’ sopraelevate rispetto al suolo. In questo modo durante la stagione delle piogge rimangono comunque percorribili, anche se tutto intorno è allagato. Passiamo davanti ad un’industria lavora la barbabietola da zucchero, incontriamo qua e là qualche villaggio (il più grande è Dondo).

 

La strada è sempre più disastrata: temiamo che se è tutta così non arriveremo mai. Arriviamo ad Inchope, dove la statale che stiamo percorrendo noi (la EN6) incontra la EN 1, la strada che va da sud a nord. Abbiamo percorso solo 130 km e sono quasi le 10. Rubiamo qualche foto, facendo degli scatti fuori dal finestrino più o meno a caso: Jolindo ci dice che alla gente non piace essere fotografata e ci sconsiglia ci continuare a fare foto. Obbediamo. Siamo rallentati da dozzine di cantieri stradali che si occupano di rifare (o forse fare?) l’asfalto della strada. I cinesi guidano questi stessi cantieri e ogni tanto capita di vedere uno di loro a capo di un gruppo di locali che sembrano una specie di “catena del far niente”. Tutti guardano tutti e di fatto lavora uno solo: è un modo che lo Stato usa per dare un lavoro a tutti, ma che di fatto non è qualificante per nessuno. Colossi cinesi dall’aspetto occidentale di stagliano di tanto in tanto lungo la strada e ci fanno pensare a quanto questa terra venga ancora depredata dalle sue ricchezze. Persi come siamo nei nostri pensieri ci rendiamo conto del fatto che sono solo nostri e che Jolindo non ci pensa per nulla: lui parla dei suoi sei figli e di quanto bella sia la musica di Bryan Adams, che sembra acchiapparlo particolarmente sulle note di “Summer of 69”. A volte vorremmo avere la sua stessa visione “pura” delle cose e della vita.

Quando arriviamo al famoso grande incrocio le cose cambiano e la velocità aumenta: adesso sfrecciamo su una strada ben asfaltata e le speranze di arrivare al mare per l’ora di pranzo iniziamo a farsi più concrete. Passiamo attraverso dei villaggi isolati, talvolta si vedono delle scuole, un Centro di Salute, bambini che giocano lungo la strada, mercati con negozi di scarpe, sedie ed altro esposti sul marciapiedi, a pelo di asfalto. Anche qui ci sono dei tratti di strada senza asfalto. “Perché?” chiediamo a Jolindo. Risposta: “Avevano finito l’asfalto!”… Ovvio!!

CI fermiamo per una sosta in un paese poco distante da Inchope: scesi dalla macchina veniamo circondati da delle signore che vogliono venderci degli anacardi. Rimandiamo l’acquisto a dopo. Al bar, una bella capanna di paglia grande circa dieci metri per dieci, prendiamo un succo e dei biscotti secchi, non c’è molto di più. La EN1 è asfaltata molto bene e Jolindo ci dà dentro col gas, forse anche un po’ troppo. In macchina noi tre non diciamo nulla sullo stile di guida aggressivo: in fondo per la strada non c’è nessuno e così facendo ci portiamo molto avanti. C’è sempre un sacco di gente che cammina lungo la strada: come fanno quando viene buio? Trovano sempre un passaggio? Si fermano a dormire lungo la strada? Si ospitano a vicenda?

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Quando arriviamo al confine fra Mozambico Nord e Mozambico Sud la tensione sale: c’è un posto di blocco e la polizia sembra davvero seria nel controllarci il bagaglio. Interroga Jolindo sulla nostra meta e la paura è che ci chiedano soldi per passare. Grazie al Cielo nessuno chiede tangenti e riusciamo a passare nella parte sud del paese che pare dall’inizio diversa. Attraversiamo una specie di confine che è un vecchissimo e lunghissimo ponte in acciaio. Dopo di questo le strade sono già sabbiose e più strette

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A questo punto Jolindo si accorge che abbiamo poca benzina: non sa bene quanto manchi all’arrivo a Vilankulo e teme di non aver carburante a sufficienza (sapremo solo dopo che dal fiume Save sono 145 km). Jolindo dice che da qui a Vilanculos non ci sono pompe di benzina: l’unica soluzione è quella di comprare la benzina in bidoni al mercato nero. Ci avviciniamo ad un baracchino dove c’è un vero e proprio castello di bidoni gialli. Non c’è nessuno e così Jolindo suona più volte il clacson. Niente: un po’ preoccupati giriamo la macchina e ripartiamo verso il mare, che adesso sembra sempre più vicino. Jolindo si lancia in sorpassi improbabili, con la macchina che corre fra asfalto e sterrato inclinata di almeno trenta gradi verso destra, forse è Bryan Adams a dargli alla testa. Ce la ridiamo in silenzio.

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Verso le 13 arriviamo nella strada dove EN1 incrocia la strada per Vilankulo. Incontriamo delle persone a cui chiediamo dove sia la pompa di benzina che fortunatamente non è distante più di venti km. E’ in pieno stile africano: un piazzale in terra battuta con al centro le due pompe. Senza una pensilina, senza un ristoro.

Ormai ci siamo, Vilankulo è vicina. Gli alberi sono spariti e al loro posto ci sono dei cespugli bassi e si inizia a intravedere la sabbia bianca! Entriamo in paese che è fondamentalmente composto da due strade che si incrociano a T. Ci aspettavamo un posto turistico, dato che comunque è citato in molte guide ed affacciato su un Parco Naturale. Per fortuna la nostra immaginazione è tradita dalla realtà di un paese di mare dove il commercio del pesce la fa da padrone e dove il turismo è inesistente. Ciò avvolge di fascino il nostro luogo di villeggiatura e lo rende ancora più autenticamente africano. Ci sono il sole, il mare, la sabbia, le palme, ma sono parte di una realtà quotidiana e non turistica. Siamo noi gli “intrusi”, noi bianchi con il nostro stile di vita e le nostre abitudini. Ad un tratto vediamo uno spicchio di mare: non esiste una tonalità di azzurro che possa avvicinarsi a quel blu, riflesso di un cielo terso e pulito dal vento dell’oceano, che al nostro sta salendo di livello. Non possiamo ancora capire la magia della marea di cui saremo testimoni nei giorni successivi.

Il nostro albergo (Baobab Beach) non è indicato benissimo (anzi non è indicato per niente) e i locali non ci danno una gran mano a trovarlo. Un po’ per tentativi, un po’ a fiuto arriviamo davanti al cancello: una guardia ci apre e di fronte a noi il grande Baobab, da cui il posto prende il nome. Siamo arrivati!!

Il posto è carino e ben tenuto. La struttura che ci ospita è un “albergo da viaggiatori”: le camere costano 20 euro a notte e sono semplici e confortevoli. Non ci sono strutture coperte: la zona living è tutta all’esterno e dotata di bar, biliardo e tanti luoghi per riposare, comprese le amache davanti ad ogni camera. La nostra è stata subito colonizzata da asciugamani, mascherine, ciabatte, e si è subito distinta da quelle degli stranieri europei, tutte perfettamente ordinate.

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Per altro la nostra capanna è vista mare, e il panorama è splendido, così come lo sarà il rumore delle onde di notte e al risveglio. Nella nostra camminata ispettiva intorno all’albergo troviamo una grande palma, e sotto due noci di cocco. Cominciamo a sbatterle l’una contro l’altra, e poi contro il tronco, nel tentativo di aprirle, ma niente, non si aprono. Ci accorciamo che poco più indietro due ragazzi si avvicinano, ridendo per la scena appena vista. Impugnano la loro accetta e con quattro/cinque colpi ben assestati aprono la prima noce di cocco. Ci fanno notare che l’interno è secco e non si può mangiare. Così aprono la seconda: noi guardiamo attoniti la scena, pensando a quanto stupidi eravamo stati a pensare di aprire la noce di cocco a mani nude. Ringraziamo per il servizio e ce ne andiamo gustandoci il nostro cocco.

Dopo aver mangiato un panino al volo ci rechiamo in spiaggia: c’è ancora la bassa marea e la luce è calda. Le barche sono arenate sulla spiaggia e ci chiediamo come mai le abbiano ancorate sulla sabbia piuttosto che in acqua. Ancora non sappiamo come funziona l’Oceano Indiano!

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Poco lontano da noi, sulla secca della spiaggia, dei ragazzi stanno giocando a torello: Massi si aggrega. Si presenta, ma subito lo mettono al centro. Non sono bei momenti: si prendono il loro momento di gloria facendolo correre come un matto, ma alla fine prende la palla e mantenendo una strategia difensiva non entra più nel cerchio. Piano piano il cerchio si allarga e si raggiunge il quorum per il super match. Massi è in squadra con Gildo, Agnaldo e altri ragazzi. Giocare sulla sabbia è molto faticoso: i ragazzi sono ben allenati e dotati di buona tecnica. Massi prendo una brutta ginocchiata sul piede: preferisce smettere e torna agli asciugamani. E’ finito il momento sportivo!

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L’indomani optiamo per l’escursione alle isole di Bazaruto e di Benguerra: Martina va a parlare con Marina, la proprietaria dell’albergo che laggiù è un vero boss. Sembra esperta e nonostante il meteo dell’indomani dica “nuvoloso” lei dice con fermezza che sarà una splendida giornata e che dobbiamo assolutamente andare via in barca perché sarà la giornata più bella della settimana. Ci parla di una “lancia” che ignoriamo cosa sia, e dice che andremo in gita con qualche altro turista di altri alberghi vicini. Siamo emozionati, non stiamo nella pelle! Le foto che abbiamo visto sono diverse da quelle che ci prospetta la nostra veduta sull’oceano e ci chiediamo come sia possibile che al largo ci siano degli atolli di simile bellezza.

In serata, a bordo biliardo, conosciamo Elder, the taylor! Elder è un ragazzo molto giovane che cuce vestiti per i turisti. Non ci facciamo pregare due volte e commissioniamo una camicia dai colori sgargianti e un vestito, chiedendogli di confezionarli nel più breve tempo possibile. Arriveranno dopo due giorni ma ne sarà valsa la pena!

Dopo un’ultima partita a stecca decidiamo di andarcene a letto. Domani ci attende Bazaruto!


24 Ottobre

Al nostro risveglio (non più tardi delle 7.00) Jolindo è già partito: chissà cosa avrà pensato della vita dei bianchi, lui che non aveva mai visto una struttura alberghiera. Chissà se abbiamo intaccato la sua inconsapevolezza. Ieri, quando giocava a calcio, sembrava un bambino di 40 anni; a cena abbiamo provato a coinvolgerlo in qualche discussione, ma piano piano spariva, come non volesse essere parte di quel nostro mondo. Ci dimentichiamo di lasciare a Jolindo il CD del rock europeo, ma lo lasciamo a Damiano con la promessa di farglielo recapitare.

Il cielo è molto grigio, c’è molto umidità e non vediamo il sole. Siamo un po’ preoccupati per l’escursione, temiamo che senza il sole il mare non si accenda di quei suoi colori pazzeschi. La nostra capanna vista mare ci permette di goderci la calma piatta del mare al sorgere del sole. In spiaggia non c’è nessuno, e l’acqua è lontana lontana: bassa marea. Prepariamo lo zaino, senza dimenticarci le creme, facciamo una super colazione e siamo pronti per la missione.

Ci accompagna alla lancia il marito di Marina, Elder, un locale con tratto cinese che a suo modo è anche inquietante. Occhi a mandorla, statura elevata, spalle larghe, orridi calzoni dalla fantasia improbabile che ci ricorda pacchetti di caramelle colorati. Togliamo le scarpe da ginnastica e mettiamo i piedi in acqua: il terreno appiccica e a volte abbiamo l’impressione di pestare qualcosa che si muove. La lancia che ci aspetta sembra una sanpierotta veneziana: non è coperta e non ha vela, ma solo un motore che è ovviamente sproporzionato per le sue dimensioni. Abbiamo una specie di marinaio e un mozzo che ci accompagnano lungo il percorso. D Mettiamo tutti i nostri averi dentro la scatola “water proof” (ben poco di tecnologico!) e montiamo in barca, insieme ai due marinai. Costeggiamo lentamente la riva: c’è bassa marea e più volte i marinai sono costretti ad alzare il motore e andare a spinta. Navighiamo lungo la costa a passo d’uomo, per raggiungere i nostri compagni di viaggio, due milanesi e due brasiliani. I milanesi sembrano due bauscia, per modi e parlata: in realtà scopriamo che hanno viaggiato un casino, e sono stato in un sacco di posti interessanti, dal Sudamerica all’Estremo Oriente. Sono più fighi di quello che sembrano!  Prendiamo il largo, e piano piano si fa largo anche il sole. Il mare è incredibilmente piatto: la lancia a motore vola sull’acqua, che piano piano si accende di un azzurro intenso.

Poco dopo la barca inizia a correre forte sulle onde e talvolta si ha l’impressione di saltarci sopra. Capelli al vento, respiriamo la salsedine che subito impregna e secca la nostra pelle riarsa dal sole. In fondo si staglia sempre più evidente l’Isola di Bazaruto che ci appare come una gigantesca duna di sabbia bianchissima. Il colpo d’occhio della costa è mozzafiato: mammano che il sole si alza il mare si carica di turchese e verde e il gioco di colori è spettacolare. Abbiamo proprio l’impressione di essere in un paradiso tropicale. Improvvisamente avvistiamo un branco di delfini: per un paio di minuti giocano con noi, passando diverse volte sotto la nostra barca. Poi scompaiono.

Dopo un’ora abbondante sbarchiamo a Bazaruto. Qui la guida ci fa il briefing: ci spiega come è fatta la barriera, dove ci fermeremo e dove si fermerà la barca nell’attesa. Disegna la mappa del posto sulla sabbia, con un fare a dir la verità un po’ arrogante. Ci spiega anche che proveremo la “washing machine”: capiremo dopo che si tratta di una doccia vera e propria solo nel momento in cui ci avviciniamo al reef. Ci carica in barca e via, puntiamo il largo. Arriviamo in un punto qualsiasi e si spengono i motori. Il marinaio ci dice che al tre dobbiamo buttarci: ci guardiamo senza dire una parola, alcuni di noi si mettono il giubbotto di salvataggio e ci buttiamo in acqua, mascherina in testa e boccaglio in bocca. Guardiamo sotto: la barriera corallina, un mare di pesci tropicali. Vediamo il fondo, e un braccio di mare di divide dal mare aperto, quello vero dove il fondo è davvero fondo. Le onde ci sono e talvolta abbiamo l’impressione di respirare acqua oltre che aria. Lo spettacolo è impagabile: stelle marine rosa e viola, pesci a strisce e dai colori sgargianti. Siamo senza fiato e 45 minuti passano in fretta. Damiano galleggia come un galleggiante da pesca e sembra in difficoltà a più riprese: non sa nuotare e ai nostri occhi è un eroe. Dopo una ventina di minuti lo vediamo risalire sulla barca, coperto dal suo asciugamano giallo fluorescente. Grande!!

Torniamo all’isola sfrecciando a tutta velocità sulle onde: siamo bagnati fradici, infreddoliti, ma la sensazione del vento su pelle e capelli ci dà un senso di libertà assoluto. Mentre ci preparano il pranzo ci dicono di andare a farci un giro lungo l’isola per vedere il panorama. Saliamo lungo una duna bianca che a tratti è coperta di conchiglie bianchissime, fa quasi fastidio guardarle senza occhiali da sole. Quando valichiamo la duna lo spettacolo è mozzafiato: due atolli bianchissimi emergono dalle acque turchesi dell’Oceano e sembrano due lingue di terra in bilico, pronte ad essere inghiottite da un momento all’altro dal mare. Ci affrettiamo ad immortalare il paesaggio che cambia sotto i nostri occhi. Facciamo la classica foto di rito e poi Massi ci trascina a terra lungo la parete ripida della duna. Scendiamo velocemente e nel giro di qualche secondo facciamo un sacco di metri. Aiuto, salire con il sole a picco sarà durissima!! Damiano ci immortala in alcune foto che ci fanno rivivere l’emozione di quegli istanti: speriamo di “non crescere mai”!

Torniamo alla spiaggia affamati e mangiamo il pranzo a base di pesce e pollo che ci hanno cucinato sulla spiaggia. E’ buonissimo! Chiudiamo il pranzo con due mini banane: a dir poco sensazionale! Queste si che sanno di banana! Siamo accampati in riva al mare come dei veri esploratori e ci rendiamo conto che siamo soli, distanti almeno 50 km da qualsiasi forma di vita. Che sensazione stupenda!

Sotto la tenda improvvisata c’è l’occasione per socializzare con i nostri compagni di viaggio; fa molto caldo e l’ombra è quello che è. Prima di partire da Bazaruto facciamo una piccola  passeggiata costeggiando la costa scogliosa. Abbiamo un incontro ravvicinato con una “mandria” di granchi: sono decine e decine e si muovo velocissimi lungo la scogliera. Sulla parte sabbiosa invece centinaia di conchiglie bianche, enormi. Sembra impossibile che i turisti non abbiano ancora fatto razzia. Sarà solo questione di tempo.

Partiamo quindi alla volta di Benguerra. Una lingua di sabbia bianchissima divide il mare da una laguna interna. Qui la temperatura dell’acqua è veramente alta, quasi da dare fastidio. Damiano, forse preso da un colpo di calore in testa, forse disperato la situazione difficoltosa, la attraversa: da lontano sembra Gesù che cammina sulle acque. Ci fermiamo  per circa mezzora, il tempo di farci un altro bagno in quest’acqua magnifica. Qui, sul fondale sabbioso, non ci sono pesci.

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Nel frattempo il vento si è alzato, e con esso anche il moto ondoso. Il ritorno è davvero il viaggio della speranza. Massi si trova casualmente seduto sulla parte sbagliata della barca che rimbalza sulle onde, e ad ogni rimbalzo alza dell’acqua che con il vento gli stampa sulla faccia. Quando arriviamo lungo la costa è bagnato fradicio: l’ultimo braccio di mare è un incubo: corriamo a velocità assurda e la barca colpisce le onde dall’alto a basso facendoci saltare sulla barca. Vola qualche parolaccia di troppo, siamo piegati dal ridere! Usciamo ammaccati, con qualche livido sulle ginocchia e sul sedere. Accidenti alla velocità! Siamo stanchi e ustionati. Damiano già pensa all’effetto doccia sulla sua pelle. Uscirà sfogonato, con le orecchie in fiamme! A noi invece è andata bene, siamo bruciacchiati ma niente di grave.

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Rientriamo al Baobab per le 16:00: ci rilassiamo tra una partita di biliardo e una di chiacchiere. Ci sentiamo ancora delle energie in corpo e decidiamo di andare a mangiare a Casa Rex, a detta di Marina il miglior posto della zona. Prendiamo la chapela e attraversiamo tutta Vilankulo in poco più di 15 minuti. Casa Rex è una struttura moderna e arredata nei minimi dettagli. Legno, pelle, terrazza vista piscina, un ambiente niente male. Mangiamo dell’ottimo pesce, contorno e anche il dolce per circa 20 euro! Niente male per quello che abbiamo mangiato. Damiano ci fa assaggiare il Vinho Verde, tipico del Portogallo. Il nome e il colore possono trarre d’inganno. Il Vinho Verde non è una varietà d’uva ma è un “vino giovane”, in opposizione al vino più maturo, può essere rosso, bianco o rosee e deve essere consumato entro un anno dall’imbottigliamento.

A Casa Rex rincontriamo i nostri amici brianzoli, spaparanzati su una poltrona bianca, in attesa di Marina: stasera fanno serata all’African Bar. È sabato sera, abbiamo voglia di far festa e così ci aggreghiamo alla comitiva. Ci danno un passaggio in jeep e ci ritroviamo al nostro albergo in dieci minuti: le strade sono buie e sembrano sinistre rispetto a quando le illuminava il sole. Al nostro arrivo Marina ci propone di andare con lei appunto all’African Bar. Non ne abbiamo più ma non possiamo andarcene senza aver visto quel bar! Ci troviamo dentro ad un locale carino, in stile africano. Sfortunatamente è vuoto: Marina giura che di solito è pieno di gente, ma quella sera si batte la fiacca. Siamo stanchi e decidiamo di tornare a casa. Marina dice che possiamo farcela a piedi senza problemi. Usciamo nel buio e ci troviamo a camminare sulla sabbia, nel silenzio, lungo strade deserte. Cosa ci è venuto in mente? Damiano ha il passo lungo, ripete di continuo che non ci sono problemi ma sentiamo una nota d’ansia nelle sue parole. Ad un tratto iniziano a seguirci due cani randagi: sono tranquilli ma il loro essere le nostre ombre li rende inquietanti. Quando vediamo il cancello del Baobab è sollievo: siamo salvi! Entriamo, ci diamo la buonanotte e… via sotto le coperte! Domani è un altro giorno!!


25 ottobre

È domenica. Ce la prendiamo comoda dopo la sfacchinata di ieri.  E’ una bella giornata, anche se un po’ ventosa, e ne approfittiamo per fare una passeggiata lungo la spiaggia. Oggi c’è bassa marea e dove ieri c’era il mare, oggi c’è un grande deserto bianco: la differenza tra l’alta e la bassa marea è addirittura di quattro metri!!

Il paesaggio è quasi lunare: le barche sono tutte arenate sulla sabbia e solo qualche rigagnolo d’acqua scorre qua e là. I granchi camminano nella lunga distesa sabbiosa, alla ricerca delle pozze d’acqua, che non troveranno.

In una delle pozze più grandi vediamo un ragazzo rincorrere un pesce: Zac! lo prende in pieno e vediamo inchiostro ovunque. E’ una seppia! Poco più avanti una giovane ragazza con un bambino infilato in un sacco e portato letteralmente in spalla cammina con un tridente di legno a caccia di granchi, e ne prende diversi! Raggiungiamo il capo di Vilankulo e siamo ormai distanti parecchie centinaia di metri dalla riva, ma siamo ancora sulla sabbia.

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Piano piano la marea comincia a risalire: le donne e i bambini cominciano a tornare indietro, con i sacchi pieni di pesci e granchi. Alcuni bambini giocano con le barche a vela, approfittando del forte vento e dell’acqua ancora bassa, altri invece si avvicinano a noi. Sono curiosi e vogliono socializzare. Una ragazzina, la più furba del gruppo, prende un granchio con le mani. Incredibile.

I bambini sono incuriositi dalla macchina fotografica: ci facciamo molte foto e non appena la macchina fa l’autoscatto  loro corrono a vedere come è venuta la foto. La ragazzina più grande vuole anche delle foto in posa.

Dopo il pranzo al Baobob Beach, ci riposiamo un po’ tra una pennichella, una partita a stecca e una a carte. Il sole è forte e soffriamo ancora un po’ delle scottature del giorno precedente.

Ci spostiamo in spiaggia solo nel tardo pomeriggio, quando la marea si è ormai mangiata del tutto il grande deserto. Proviamo a schiacciare un pisolino all’ombra delle palme, ma veniamo disturbati da alcuni cani randagi, i soliti, che sono inoffensivi ma che comunque ci inquietano.

Nel pomeriggio riusciamo ad andare in spiaggia. Quando tiriamo fuori le bocce (prese in prestito da Marina) e i bambini le vedono è subito Grest. Vogliono tutti toccarle e giocarci ma non ce ne sono abbastanza per tutti e reinventiamo il gioco in una specie di pallacanestro, dove il canestro è il cerchione di una bicicletta. Massi prova a dividerli in squadre per colore: è difficilissimo, non sono abituati alle regole ma alla fine le capiscono e a colpi di amarelo, vermelho, verde, riusciamo a intenderci e il gioco funziona. Massi è circondato da una nuvola di bambini che ridono e saltano ad ogni canestro riuscito. Scattiamo dozzine di foto: è un momento stupendo!

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Torniamo al Baobab, dove finalmente è arrivato il nostro taylor. I vestiti sono spettacolari! Passiamo la serata sui divanetti del Babobab: immancabile la sfida a biliardo. Il vento cala con l’avvicinarsi della notte: la luna illumina il cielo a giorno, riflettendosi sul mare. Il paesaggio è da cartolina.


26 Ottobre

Questa mattina ci siamo svegliati molto presto per colpa di… un calabrone! Nonostante una violenta ciabattata è rimasto ancora tramortito ma vivo sul pavimento della camera. Diciamo a Marina che forse è il caso di fare qualcosa: nessuno sembra turbarsi particolarmente, quando mai! Viene nella nostra camera un dipendente dell’albergo e ci spiega come i calabroni nidifichino sui pali, all’interno dei quali entrano a mezzo di buchi. Ci accorgiamo che i pali sono PIENI di buchi e vediamo che spruzza all’interno di ciascuno un’insetticida e chiude il buco con del mastice. Sentiamo ronzare ancora per qualche ora, poi più niente: di fatto abbiamo murato vivo un calabrone!

Risolta la grana calabrone, ci prepariamo per l’escursione del giorno: l’isola di Magaruque. Damiano non viene con noi perché teme il sole e così ci ritroviamo soli a bordo di un dhow, la tipica barca africana che riesce ad andare sia a motore che a vela. La barca è grande e tendata e fila sulle onde senza difficoltà. Ci parlano di un’isola più scogliosa, anche se a distante sembra uguale a quella di Bazaruto. Non abbiamo aspettative, siamo già appagati da tutto e crediamo sia difficile rivaleggiare con Bazaruto e Benguerra. La marea questa mattina è particolarmente bassa e il dhow è costretto a zigzagare tra i banchi di sabbia, a motore. Il mare è piatto, di un colore cristallino. Massi si gode il viaggio in piedi, sulla prua del dhow, come un vero lupo di mare. Lungo il viaggio, sulla destra, incrociamo uno stormo di fenicotteri, che appena ci vede prende la rincorsa e il volo: con le loro ali rosa sono splendide a dir poco.

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Ci avviciniamo piano piano all’isola, e la circumnavighiamo. Attracchiamo su una parete scogliosa, molto profonda. Ne approfittiamo approfitto per fare un po’ di snorkeling. Il reef non è bello come quello di due giorni fa, anche se anche qui si vedono un sacco di pesci colorati.

Usciti dall’acqua ci arrampichiamo sulla scogliera, fino a raggiungere un’insenatura sabbiosa, dove ci sono anche due capanni. Sotto la capanna di paglia facciamo amicizia con un gruppo di sudafricani che sembrano facoltosi: hanno deciso di venire in Mozambico a festeggiare il compleanno di un amico e ci sono venuti a bordo di un piccolo motoscafo di lusso. Quando vedono il nostro dhow approdare vicino alla loro barca sgranano gli occhi: non credono possibile che la nostra barca sia quella e soprattutto che i marinai stiano preparando la cena letteralmente a bordo, con braci poggiate sul fondo della barca. Li vediamo dirigersi quasi di corsa vero il dhow e sporgersi all’interno della barca per curiosare. Ci fanno sorridere, ci guardano come se fossimo degli avventurieri incoscienti, e ci rendiamo conto che forse è vero. Siamo talmente entrati in sintonia con i ritmi e le abitudini africane che abbiamo perso del tutto il razionale del mondo occidentale, e in qualche modo loro ce lo fanno rivivere.

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Quando saliamo in barca i marinai ci fanno mangiare su un tavolo improvvisato e si mettono subito dietro, ad aspettare che finiamo il pranzo per poi prenderne una parte. Li invitiamo a più riprese a sedersi con noi ma solo dopo infinite insistenze cedono, quasi imbarazzati all’idea di potersi sedere con noi. Ci raccontano quanto sia difficile lavorare per loro, e quanto poco guadagnino: lo stipendio della giornata corrisponde a poco più di quattro euro, neanche abbastanza per comprare un frango (un pollo). Uno di loro ha due mogli, l’altro non si ricorda neanche il nome di tutti i suoi figli. Com’è possibile? Che valore hanno la vita, la famiglia? Non ci facciamo più domande, qui si vive così ed è inutile cercare di piegare al nostro modo di vivere il loro. Alla fine del pranzo rimaniamo impressionati da un gesto di grande solidarietà: pur guadagnando poco e avendo figli a casa da sfamare offrono il cibo avanzato ai marinari delle barche accanto, perché oggi “tocca a me” e domani “tocca a te”. Questa è la solidarietà.

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La marea si alza velocemente e piano piano si mangia tutta la spiaggia: non riusciremo a fare il giro dell’isola, peccato. L’acqua arriva fino a lambire il capanno e ci bagna le carte da gioco e gli zaini. Montiamo rapidamente in barca, alla ricerca di una lingua di sabbia non ancora sommersa. I marinai si fermano vicino ad una piccola duna, facciamo due passi e qualche foto: dalla cima vediamo l’Oceano aperto. Il vento tira fortissimo e il mare è molto mosso: l’isola per tutto il giorno ci aveva riparato dal vento e realizziamo che il viaggio di ritorno non sarà una passeggiata.

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Quando risaliamo in barca il marinaio spegne il motore e alza la vela, che sbatte subito gonfiata dal vento. La barca inizia a muoversi spinta nel silenzio e beccheggia sulle onde che iniziano a farsi grosse. Cerchiamo di guardare sempre avanti a noi, anche perché le onde sono alte e talvolta si infrangono sullo scafo, bagnandoci. Ancora una volta abbiamo la percezione di essere soli al mondo, con la consapevolezza che se succede qualcosa non abbiamo alcuna speranza di salvarci. Fa parte sempre del pacchetto Africa: devi accettare la sfida se vuoi avere qualcosa in cambio. Quando arriviamo a Vilankulo siamo stanchi e nauseati e vogliamo mettere i piedi a terra. Troviamo Damiano disteso come un salame su un’amaca: ci accoglie con il suo solito sorriso, dicendoci che ha dormito fino a mezzogiorno e che si sente proprio riposato. Facciamo una maxi partita a scopa e la fortuna sembra volgere a favore di Martina che straccia tutti, al punto che poi gli uomini sentono il bisogno di farsi una partita a stecca da soli.


 

26 Ottobre

Notte tremenda per Martina, la maledizione del faraone ha colpito di nuovo e non ha dato tregua. Al buio, con il vento che incalza e che entra nella tenda, il rumore del mare che sembra quasi minaccioso, viene anche il panico di stare peggio e di avere qualcosa di più di un semplice scagotto. Alla luce del sole si minimizza il tutto e riusciamo a rilassarci.

Verso le 11 facciamo un giro in spiaggia, c’è molto vento, la marea è bassa: non ci invoglia molto fare il bagno, ma siamo attirati dalla folla colorata raggrumata tutta sulla spiaggia.

Dal mare gli uomini arrivano con le barche cariche di pesce e lo scaricano in spiaggia, rivendendolo alle donne che lo aspettano sulle rive accalcandosi attorno ai marinai per comperare il pesce, con una vera e propria asta al rialzo. Guardiamo lo spettacolo da fuori:  that’s Africa! In mare gli ultimi pescatori lottano contro le onde per fermare le barche. La marea sale sempre di più, lo spazio per il mercato si riduce. Il pesce è per terra, insabbiato, e ce n’è di tanti tipi: dalle piccole carpe, al pesce martello, ai granchi. E’ un vero spettacolo. Massi, che con la sua camicia africana è perfettamente mimetizzato fra loro, si riconosce solo dalle gambe, perché sono le uniche bianche in mezzo alle loro tutte nere come il carbone. Ancora una volta siamo rincorsi dai bambini che vogliono farsi fare una foto da noi e con noi: sono bellissimi, ce n’è una con le treccine che ci fa impazzire, ce la porteremmo a casa subito!

Nel pomeriggio ci avventuriamo di nuovo lungo le vie di Vilankulos per raggiungere il mercato: è il penultimo giorno e siamo in cerca di regali da portare a casa. Non troviamo un negozio di cianfrusaglie che sia uno: è pieno di negozietti di mattoni e pietre dalle insegne colorate che vendono solo generi alimentari e di prima necessità. Qui il turismo NON c’è!!

Di fronte alla struttura del Mercato Municipal c’è un gran brulichio di gente, una lunga colonna di chapela parcheggiate, e ben poche auto. Ci addentriamo dentro alla struttura, un vecchio casermone in cemento, alto e luminoso. Al suo interno ci sono una decina di banchetti, soprattutto donne che vendono pesce essiccato e verdure. L’odore è allucinante e passiamo di corsa nella parte posteriore dove si apre un dedalo di baracche e stradine che ci costringono a camminare vicini e a testa bassa, tanto bassi quanto lo sono i soffitti. Ci infiliamo fra i negozietti di sale, olio imbottigliato in flaconi di plastica usata, ancora pesce, frutta stesa a terra in cataste disordinate, vestiti senza taglia. In un angolo troviamo un negozio dove confezionano vestiti e borse con le stoffe di capulana: è troppo complicato anche solo lo spiegare come fare una borsa, lasciamo perdere subito l’idea di farci fare qualcosa su misura. Con i tempi africani non avremmo mai la merce per il giorno dopo!

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Massi sembra come impazzito: adora il Mercato e vuole tornare indietro per filmarlo. Quando lo vediamo sparire nella folla ci viene un nodo alla gola: e se si perde? E se lo prendono? Poco dopo compare alle nostre spalle: non sappiamo che giro abbia fatto ma siamo sollevati all’idea di rivederlo!!

Abbandoniamo il Mercato e continuiamo lungo la strada principale, dove un sacco di gente cammina. Ci sono dei ragazzini che vendono CD: ne compriamo uno, e sorridiamo nel vedere che sono in vendita CD crackati con i nomi degli artisti occidentali tutti sbagliati (dai Quin ai Bitols!).

Quando arriviamo alla piazza principale, la prima che abbiamo visto al nostro arrivo in città, capiamo che Vilankulo finisce lì. Altro da vedere non c’è, così come non ci sono altri negozi. Vediamo una ciapela con scritto sul vetro: Hakuna Matata e decidiamo di prenderla per tornare in albergo. Viaggiamo schiacciati in tre sul sedile posteriore, mentre il nostro autista guida questa mitica Ape-Cross sulla strada sabbiosa. Tagliamo per un distributore di benzina (ovvio, perché no?) e facciamo gli ultimi metri saltando sulla sabbia, in curva sentiamo che il motorino derapa e scoppiamo a ridere. Le ciapela sono troppo forti!!

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27 ottobre

E’ l’ultimo giorno, siamo un po’ malinconici. Facciamo colazione: siamo stanchi di mangiare sempre le stesse cose e ormai abbiamo la nausea. Massi inizia a stare male ma per fortuna è solo un moto di stomaco passeggero. Optiamo per un’ultima passeggiata sulla spiaggia, cercando i nostri amici delle bancarelle.

Prima di scendere in spiaggia salutiamo Damiano, che deve prendere la corriera per rientrare a Beira. Lo aspetta un viaggio lungo, anche perché non sa se passerà mai il bus per Beira. Aspetterà ore sotto il sole prima di prenderlo, ma i suoi messaggini di aggiornamento ogni due ore ci confortano sulle sue condizioni. Arriverà a Beira poco prima del nostro arrivo a Johannesburg.

Camminiamo tenendo l’Oceano alla nostra sinistra: veniamo avvicinati dai cani. Non ci sentiamo a nostro agio, e così ritorniamo sui nostri passi. I cani sembrano voler compagnia, ma noi non vogliamo la loro.

Ritorniamo all’ingresso del Baobab Beach, dove Boa Gente, Antonio e gli altri amici stanno allestendo il banchetto. Boa Gente, che ci aspetta con la sua mercanzia ha davvero un bel banchetto di articoli “turistici”: è l’unico che ha intuito il business! Contrattiamo il prezzo per una decina di borse di stoffa, braccialetti, collanine. Ci racconta della sua aspirazione di essere un pittore, anche se capiamo che con “pittore” intende “imbianchino o muratore”. Sorridiamo quando lo vediamo con la maglia di Massi addosso: dice di saperne in quanto a griffe ma chiede di che marcia sia; ama le scarpe italiane di marca più di tutto; ignora cosa sia la Ferrari e vuole venire in Italia, a Parigi. Gli diciamo che Parigi è la città più bella d’Italia, dopotutto per lui è lo stesso. Lasciamo alla gente le nostre scarpe e altri indumenti: qualcuno le indossa cantando e ballando, come se fosse una festa. A distanza di mesi Damiano ci dirà che si ricordano di noi e che ci mandano a salutare. Qualcosa di buono abbiamo lasciato in questa terra lontana!

Marina ci accompagna all’aeroporto con lauto anticipo: ci racconta la sua esperienza di vita africana, parla della sua fuga dallo Zambia e del suo nuovo (terzo) marito, che abbiamo conosciuto in albergo. Ci lascia con un po’ di nostalgia, dicendoci di tornare a trovarla. Anche lei è diventata un’amica, e ci dispiace lasciarla in questa terra lontana. Saliamo in aereo con un senso di grande appagamento: siamo stanchi ma ricchi di vita vissuta che non vediamo l’ora di raccontare.

Martina ha le ultime forze (e gli ultimi soldi) da spendere all’aeroporto di Johannesburg. Arriviamo a Parigi dopo una notte di viaggio. Siamo molto stanchi, abbiamo voglia di tornare a casa nostra. Quella nuova, a Treviso.

Secondo capitolo africano concluso. Con la sacca piena di ricordi stiamo già pensando al terzo capitolo! Africa, aspettaci!! Hakuna Matata!

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Un pensiero su “Oceano indiano

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